5 cose che mi porto a casa dal Vinitaly 2017

  1. Innovare significa anche guardare all’essenziale delle cose.

Non che sia stata scoperta l’acqua calda, ma c’è da dire che questa “Nouvelle Vague” del vino riporta l’attenzione sul vitigno andando a togliere tutto quello che c’è di più dell’uva che si trasforma in vino. E allora si possono assaggiare vini di grande intensità e potenza, tutto frutto (sic) dell’uva e nulla più.

Un esempio di questo nuovo corso è l’azienda Polvanera a Gioia del Colle, che presenta bianchi di buonissima freschezza andando a riscoprire vitigni autoctoni semi-aromatici, puntando su rossi tipici e sfruttandone tutte le peculiarità.

Le nuove leve sono in prima linea a raccontare le scelte in vigna e in cantina, a raccontare i vini con competenza e passione.

 

  1. I giovani non sono il futuro, sono il presente del vino.

Questo potrebbe essere una banalità, ma non c’è nulla di banale in tutto questo. Giovani, da poco ventenni, che spendono parole, energie e passione sotto gli occhi del pater familias o della mater familias che li osservano lasciandoli sperimentare in prima linea. Tutto questo è molto bello dal punto umano e anche in prospettiva della continuità aziendale.

Vedere la figlia di Elisabetta Foradori spiegare con cognizione di causa la linea aziendale, raccontando i vini e spiegando le scelte di stile con competenza e passione è una bella certezza che la qualità della produzione enoica possa avere un continuo con la stessa passione rinnovata nella nuova leva.

 

  1. La qualità della cantina si riprercuote anche nell’attenzione all’interlocutore

Si capisce la qualità della cantina dall’attenzione ai dettagli: la presenza e la preparazione di chi presenta i vini, l’attenzione alla temperatura di servizio, l’interazione con l’interlocutore. La bellezza di essere trattati tutti allo stesso modo senza doversi presentare come professionista del settore, anzi, essere trattati tutti come appassionati di vino prima di tutto e come consumatori prima ancora di essere compratori.

La classe non è acqua: è vino, è Franciacorta, è Mosnel. La piacevolezza della persona che era di servizio, la sua preparazione e la grande attenzione nei confronti di tutti fanno esaltare la grande espressione dei vini che vengono presentati. Viene proposta in degustazione l’intera gamma di vini e si tratta di una qualità eccelsa; l’impressione che si ha è che l’attenzione nello stand abbia inizio in cantina e prima ancora in vigna, con la ricerca del biologico come modalità di lavoro.

 

  1. Fare vino biologico non vuol dire che il vino debba “puzzare” per forza

Questo argomento è sicuramente dibatutto, soprattutto ora che la tendenza di molti produttori è di ridurre l’utilizzo della chimica come scorciatoia del lavoro in vigna visto che, per alcuni produttori, questo debba tradursi per forza in una “puzzetta” in modo da essere certi che sia biologico.

Qui di nuovo torna Mosnel con la presentazione della prima uscita in biologico di un metodo classico a dosaggio zero chiamato, vista l’occasione, Nature. L’espressione di un grande vino c’è tutta, anche se si tratta della loro bottiglia base e non si sente nessuna “puzzetta”, quanto più una finezza di profumi e una cremosità di bollicine.

 

  1. Tirarsela non è mai una buona idea

Il discorso non vuole essere polemico, sicuramente non si può biasimare il fatto di voler cavalcare l’onda di avere tra le fila il miglior vino d’Italia secondo un famoso critico; anche se mettere cordoni neri da privé e bottiglie su cubi come se fossero ballerine da ammirare forse è un po’ troppo. Il discorso è sul fatto che ci sono aziende che questi premi li hanno presi e ne hanno presi di più importanti; nonostante questo, sono rimaste genuine come i loro prodotti, con i piedi per terra senza pensare di pavoneggiarsi. La qualità è anche in questo atteggiamento e non solo nel vino.

Il riferimento, neanche troppo veltato, è a Montalbera che ha puntato a rendere d’élite il suo Ruché premiato da Maroni. Sarebbero stati non troppo furbi a non sfruttarlo, ma da lì a fare uno stand enorme e permettere giusto a poco più di un paio di persone alla volta la degustazione, mettendo all’ingresso un gorilla che ti dice che per assaggiare i vini bisogna aspettare mezz’ora, allora forse si sta perdendo un po’ il senso del premio che si presuppone sia alla qualità del vino e non all’esclusività dello stesso.

 

+1.   Lo stupore è il motore della conoscenza

L’ultima cosa che mi porto a casa è la bellezza dello scoprire. Anche questa potrebbe essere una banalità, ma penso che approcciare queste manifestazioni in questo modo possa essere la maniera giusta di portare a casa un bagalio di nozioni, informazioni ed emozioni.

Allora penso alla scoperta di Ca ‘d Gal che fa Moscato d’Asti rendendolo un vino con una grande dignità. Penso alla già citata Polvanera con i loro vini veri e veritieri. Penso alla qualità dei bianchi di Torrevento che ne fa di ottimi in una terra di rossi.

Tutto questo dà nuovo slancio, spinge a cercare nuove cose, a continuare a studiare, a essere sempre aperti in ogni direzione, perché questo è il solo modo possibile per andare avanti e per poter godere appieno di quello che si beve, andando a scoprire quello che c’è a monte del bicchiere: un mondo fatto di territorio, di lavoro e di passione.

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