La possibilità di trovare le cose nel loro stesso posto è la speranza che tutti abbiamo nel ritornare in questa campagna e alla vita che vi si conduce, dove l’immutabile ti aspetta come una moglie, con i suoi profumi, i ricordi, i colori, il calore, le voci, le case.
Partendo da Torino, ci si arriva da due vie, nel Roero. Dalla strada per Pralormo, oppure si passa per Ferrere. Il bivio è all’altezza di Chieri.
Due strade completamente diverse.
La prima alle pendici delle Alpi, con il sole a destra, nelle pianure. La seconda, che scende diversa, e passa in mezzo ai boschi. Ci si allevano le bestie lungo queste strade, chi vive intorno alla prima è della provincia di Cuneo, chi lungo la seconda Astigiano.
Una volta arrivati si svolta e si entra in un territorio magnifico. Il suo nome lo prende dalla famiglia Roero, antica e ricca casata di origine francese e filofrancese, dall’araldica con tre ruote, proprietaria dal 1200 dei territori fra il Monferrato e il piacentino. Imparentata con la famiglia Savoia ha costellato questo territorio di castelli e ville. Per citarne alcuni: Monticello, Santa Vittoria d’Alba, Cisterna, Canale.
Per amare alla follia questo territorio bisogna aspettare le sere, d’estate, quando il sole ti guarda in faccia mentre torni dalla campagna esausto. Quando le foglie calde aspettano di poter ricominciare finalmente a respirare. L’inverno, invece, è freddo, nevoso, le nuvole al mattino abbracciano le colline come un mare di latte. Ed i cieli sono turchini.
L’estate è tempo di feste: le passa radio Valle Belbo, ne fa l’elenco la mattina per la sera. La festa di Magliano, la Festa dell’agnolotto, la Festa di Castellinaldo, la festa del Bonarda, la Fiera del Pesco. E altre cento ancora.
Le feste: svago, vero, non è una moda, dopo che si è stati tutto il giorno in vigna, perché qui le vacanze non si sa cosa siano, al massimo si può fare una crociera d’inverno, quando ci si annoia fra la bocciofila e il bar.
Di vini non è banale parlare, perché oggi si sente del nebbiolo e dell’Arneis, ma tante altre varietà sono rinomate e coltivate da sempre: la Favorita, la Bonarda piemontese (Croatina per i puristi), la Barbera, il Moscato, il Brachetto per il Birbet.
Tutto può venire bene in queste belle vigne, fra i peschi, le madernassa, le prugne e i pomodori. Tutto pulito, sotto un cielo così, vengono vini dolci, in ogni senso, fruttati e frizzanti, ma anche vini caldi, per le sere d’inverno. Non hanno la struttura dei langaroli, sono un’altra cosa, sono un patrimonio, di sudore, calore, festa, vita..
Vita ancora quella vera.
Vita delle nuove generazioni che hanno voglia e soprattutto hanno ancora le conoscenze tramandate dai loro nonni per farlo. Che per carità il diradamento è ottimo, ma la luna magari non la dimenticare.
So di dire un’eresia ma vorrei che dal Roero gli enofighetti stessero alla larga e che le persone venissero numerose, per star bene, per bere, per mangiare, ma anche per scoprire, per capire, un territorio dove tutto è ancora molto come un tempo, dove la gente ci abita, dove i nonni vanno a
pesare al peso in piazza, dove ad Ottobre si mangiano i tajarin con la barbera, dove si va in chiesa a far benedire i frutti della terra. Dove la legna dei boschi serve per scaldarsi e dove c’è chi si scalda col camino e al mattino esce al gelo per svuotare la cenere.
Un sogno? Forse no.
Forse, ancora, il Roero.
Questo piccolo e breve pensiero è dedicato ad un incontro, un po’ fuori luogo, un po’ casuale, presso il Molo di Lilith, a Torino. Un ragazzo di Canale, anche se devo dire non da solo, ma lui in particolare, mi ha colpito con le sue parole, le sue riflessioni sentite, vissute, non banali, le sue mani rovinate dalla terra ed il suo viso naturalmente abbronzato.
Grazie per la sua visione delle cose.
Per il suo Arneis speciale.
Valfaccenda.
Così buono, ancora oggi, nel Roero.